Sorte comune. Tradizioni ancora vive nello stagno di Cabras.
La quasi isola del Sinis, è stata, ed è tuttora, un’area tradizionalmente vocata alla pesca, attività economica trainante nel territorio, costituita da una moltitudine di stagni che hanno conosciuto nel corso del tempo innumerevoli forme e narrazioni di dominazione.
Le sue acque, beni comuni per eccellenza, sono stati da sempre trattate e gestite come proprietà private e soggetti ad un feudalesimo di stampo medievale, protrattosi fino all’epoca più moderna, come nel caso dello stagno di Cabras.
Questo, infatti, venne ceduto nell’800 al notabile oristanese Don Salvatore Carta, che da allora stabilì la proprietà personale delle sue acque salmastre, dando origine ad una serie di successioni di Don della laguna, o come li definisce il libro di Giuseppe Fiori, i Baroni.
Nello stagno vigeva una struttura di controllo gerarchica delle acque e dei suoi frutti. Il Don si serviva di uomini di fiducia, s’habitanti, per esercitare il suo potere sui subalterni.
I così detti subalterni, non costituivano un gruppo unico, coeso dalla condizione di sudditanza. Questi, al contrario, si dividevano secondo una ulteriore scala piramidale basata sui diritti e sui mezzi che erano loro concessi sul pescato. Era proprio questa logica di dividet et imperat a rafforzare il dominio dello stagno, alienando ogni potenziale spinta ribelle interna.
La “liberazione” fu possibile solo grazie ad un input esterno, quando i pescatori del golfo occuparono lo stagno rivendicando il diritto collettivo anche su quelle acque. Fu proprio grazie al contagio di uomini liberi, non suddivisi sotto le mire di un unico padrone, che i pescatori dello stagno presero il coraggio di rivendicare un bene che per la prima volta si avvertiva come Comune.
Gli scioperi che caratterizzarono la storia della laguna tra gli anni 60 e 70 del 900 produssero una lotta dai grandi numeri: molteplici giorni di occupazione, 40 barchini a presidio dello stagno, 288 pescatori accusati di furto di pesce.
Fu in quegli anni che nacquero le prime cooperative, motore e allo stesso tempo prodotto della lotta, dato il fatto che queste si ampliarono inglobando insieme ai pescatori del golfo anche i pescatori del padrone.
Il verdetto delle lotte di liberazione venne decretato nel 1982 dal “risarcimento” al Don di turno, che la regione pagò per la privatizzazione perduta, assumendo la proprietà delle aree lagunari.
Ciò che rimane della lotta sono proprio le cooperative che la capitanarono, od oggi 11, confluite in un unico consorzio nel 1993 che prevede, oltre agli organi del consorzio stesso, undici consigli d’amministrazione capeggiati da undici presidenti, memori delle lezioni passate sulle strategie di potere, fin troppo apprese e tramandate nello stagno anche dopo la sua “liberazione”. Un simile modello di gestione ha però decimato i pescatori consorziati, dimezzandoli rispetto a soli 10 anni fa, rimasti in poco più di un centinaio; una fuga che ha alimentato la pesca di frodo come forma di ribellione all’attuale gestione.
La serie fotografica presentata è un estratto di un progetto più ampio che vuole documentare i vari tipi di pesca, i luoghi e le persone legate intrinsecamente allo stagno, che caratterizzano la contemporaneità.
Questa sottoserie approfondisce la realtà quotidiana dei pesatori consorziati, definizione che per etimologia identifica chi condivide la stessa sorte, e di una tecnica di pesca tradizionale tramandata fino ad oggi nello stagno di Cabras, fatta di camere della morte, in cui sotto rete e sotto sorveglianza si incontrano insieme pescati e pescatori.
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